Quando la Roma sfiorò il miracolo

La reazione della squadra alla fuga dei tre argentini fu splendida. Senza più l'attacco titolare, l'allenatore Barbesino si affidò alle risorse tattiche e all'inventiva. Poggiò tutto il gioco della squadra sul formidabile trio difensivo composto da Masetti, Monzeglio e Allemandi. Impostò la linea mediana a copertura della difesa, giovandosi dell'esperienza di Fulvio Bernardini e della vitalità di Fusco e di Frisoni. Spostò persino il terzino Gadaldi in attacco, per riequilibrare i vuoti della "rosa" e Gadaldi lo compensò realizzando, al suo esordio nel nuovo ruolo, il gai con cui la Roma avrebbe battuto il Napoli. Non più esaltata dalla classe di Guaita, la squadra segnava pochi gaI. Ma erano tutte reti pesanti. Se ne accorse la Lazio, che affrontò in casa la Roma alla quarta giornata del campionato 1935-36, sicura di fare un solo boccone dei frastornati avversari. Era la Lazio di Silvio Piola, di Levratto, di Monza, Gipo Viani, Bisigato e Camolese. I biancazzurri giocarono tutta la partita all'attacco, convinti di non rischiare niente. Ma all'89' l'ala destra della Roma Cattaneo si infilò in uno spiraglio, puntò rapidamente al centro e azzeccòl'angolo della porta di Zennaro con un violento rasoterra. Per tutto il girone di andata la Roma segnò una sola volta due gai, a Genova, contro la Sampierdarenese e a forza di 0-0 e di 1-0 collezionò appena sedici punti. Ma continuando a provare nuove soluzioni per la prima linea, alla terza giornata del girone di ritorno, Barbesino trovò l'uomo giusto. Lo avesse scoperto prima, la Roma avrebbe sicuramente vinto lo scudetto.
Si chiamava Dante Di Benedetti ed aveva solo vent'anni. Era di Albano e si era messo in luce nella squadra del suo collegio. Venne alla Roma in prova, senza pretendere ingaggio. Cominciò a giocare tra le riserve e si fece notare da alcuni dirigenti, tra i quali Vincenzo Biancone. Fu lui a segnalarlo a Barbesino che finalmente, dopo molte insistenze, decise di andarlo a vedere. Gli sembrava impossibile che un ragazzo, proveniente da una formazione di studenti, potesse risolvere i problemi d'attacco di una delle più forti squadre di serie A. Ma nelle ultime cinque partite la Roma non era riuscita a segnare neppure un gol e si profilava la difficile trasferta di Napoli. Era l'occasione giusta per verificare se il giovane attaccante aveva talento. E Di Benedetti non se la fece sfuggire. Dopo soli cinque minuti il ragazzino, ricevuta la palla da Tomasi, fintava la centrata e scaricava invece un bolide trasversale nell'angolo alto della porta difesa da Mosel/.:. Fu come l'apparizione di un campione. Poi segnò Tomasi e la Roma vinse per 2-1. Il ragazzo era talmente sconosciuto che "Il Littoriale" il giorno dopo ne sbagliò il nome, ma espresse su di lui un giudizio molto lusinghiero: «Il giovane Di Benedetto è stato brillantissimo. Ha freschezza giovanile, ha tiro, ha scatto. Corre e mira diritto, senza darsi arie, batte i campioni». Era stato trovato il giocatore giusto. Quell'anno la Roma terminò il campionato al secondo posto, ad un solo punto dal Bologna. Avesse individuato Di Benedetti qualche settimana prima, avrebbe centrato il massimo traguardo. La settimana dopo la Roma vinse anche il derby di ritorno, per 1-0. Segnò di nuovo Cattaneo che centrò la porta avversaria ancora una volta negli ultimi minuti. Dopo questa prodezza i tifosi gli appiopparono il nomignolo di "Castigalaziali". Silvio Piola era così convinto di segnare un gaI alla Roma che scommise mille lire sulla riuscita della sua impresa. Naturalmente perse la partita e perse anche le mille lire. Di Benedetti vinse il titolo di capocannoniere giallorosso pur avendo giocato solo tredici partite su trenta. Qualche tempo dopo esordiva in maglia azzurra con la nazionale B. A gennaio non lo conosceva ancora nessuno, ad ottobre era già una stella. Ma la sfortuna si accanì contro di lui. A Lucerna Di Benedetti segnò il primo gol della vittoria azzurra per 3-1, ma subì un duro intervento che gli procurò una lesione al menisco. Quando rientrò, dopo l'operazione, aveva perso la sua dote più brillante: lo scatto. Giocò ancora sia nella Roma che in altre squadre, ma senza più emergere. Come era apparso sulla scena calcistica, così scomparve, anticipando il destino di Rocca e di Spadoni.

Tratto da La Roma una Leggenda Editrice il Parnaso

 

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